venerdì 28 novembre 2008

Il conflitto di Tremonti

di Luca Piana
La pratica è arrivata sul tavolo degli ispettori anti evasione ormai da tempo. La Mondadori, casa editrice di proprietà di Silvio Berlusconi, è sospettata di aver evaso il fisco. Facendo i controlli sulle dichiarazioni del 2004, gli uomini dell'Agenzia delle Entrate di Milano si sono accorti che la Mondadori aveva escluso dal reddito imponibile una serie di guadagni, riducendo le tasse da pagare.
Una cifra non elevata, dicono fonti vicine al dossier, anche se superiore ai livelli che potrebbero far scattare la denuncia per falsa dichiarazione. Il caso, però, è politicamente scottante per due aspetti diversi. Il primo è che sarebbe clamoroso vedere un premier punire se stesso per aver evaso il fisco. Il secondo è che tra i consulenti fiscali abituali del gruppo Fininvest c'è, anche se in modo non esclusivo, lo studio fondato dal ministro dell'Economia, Giulio Tremonti. Così all'Agenzia delle Entrate, l'ente che si occupa della lotta all'evasione guidato da un fedelissimo del ministro, Attilio Befera, la pratica Mondadori sembra non fare progressi da mesi: alla stessa casa editrice fanno sapere di non essere a conoscenza se i rilievi, dichiarati già nel bilancio 2007, abbiano avuto seguito. All'Agenzia, invece, non commentano.
In prima linea durante queste settimane di durissima crisi finanziaria, Tremonti è da sempre considerato una delle figure più in vista nell'alleanza che gravita attorno a Berlusconi. Esiste però una faccia poco nota del pianeta Tremonti, costituita dalla sua attività professionale di fiscalista. Lo studio, fondato negli anni Ottanta, ha la sede storica a Milano, dove occupa gran parte di un elegante palazzo in via Crocefisso. Dal citofono il cognome del ministro oggi è sparito. Vi rimangono quelli dei più anziani fra i partner attuali: Enrico Vitali, Dario Romagnoli e Lorenzo Piccardi. Il sito Web informa che Tremonti "ha lasciato lo studio".
Gli studi professionali non sono aziende ma associazioni fra partner che si dividono i profitti. Se uno lascia, a meno di accordi segreti, la ditta esce dal suo patrimonio. Per Tremonti, però, l'idea di un taglio netto è dura da sostenere: ogni volta che è uscito dal governo, è tornato a lavorare in studio. È accaduto nel luglio 2004 quando, in rotta con Gianfranco Fini, per 14 mesi dovette lasciare il posto a Domenico Siniscalco. Ed è successo nel 2006, dopo l'ultima vittoria di Romano Prodi.
Questo avanti-indietro dà vita a un corto circuito continuo. Il primo aspetto problematico nasce nei rapporti fra ministero e imprese a controllo statale. Tremonti partecipa alla nomina di manager di aziende che, poi, figurano fra i clienti dello studio, come accaduto con Enel e altre società. Un intreccio che si complica quando il ministro assegna incarichi a persone che incrocia nell'attività privata. Nel 2002 ha piazzato nel collegio sindacale dell'Eni Paolo Colombo, fratello di Fabrizio, un suo associato. Due anni dopo lo stesso Paolo Colombo è divenuto consulente dello studio e lo scorso giugno, nella tornata di nomine all'Eni varate da Tremonti, è stato promosso consigliere. L'unica donna fra i partner dello studio, Laura Gualtieri, è stata nominata nel collegio sindacale di due aziende della Finmeccanica, Agusta e Alenia Aermacchi, anche se solo come sindaco supplente. Curioso il caso del presidente dell'Enel, Piero Gnudi, riconfermato in giugno: è stata la figlia, Maddalena, a venire accolta, quest'anno, tra gli associati dello studio fondato da Tremonti.
Il secondo aspetto delicato riguarda la sfera politica. I proclami del ministro a volte stridono pesantemente con il business dello studio, facendo apparire Tremonti come il Don Giovanni di Mozart: cambiando identità a seconda della donna che ha davanti, il seduttore sembra perdere se stesso. Lui attacca la grande finanza, ma fra i clienti abbondano le banche, dalla Merrill Lynch al Monte dei Paschi di Siena, che in luglio si è avvalso della consulenza fiscale di Vitali & C. per vendere alla Lehman Brothers l'attività dei crediti in sofferenza. E non mancano i petrolieri, quelli che avrebbero dovuto piangere per l'introduzione della cosiddetta Robin Hood Tax. Il 17 luglio, parlando alla Camera dei deputati, Tremonti si è scagliato contro i colossi russi dell'energia, affermando che in Europa operano soggetti dalle "caratteristiche aggressive diverse da quelle di mercato". Un mese prima, quando era ministro da 40 giorni, la Erg della famiglia Garrone aveva però venduto alla russa Lukoil il 49 per cento delle raffinerie e della centrale di Priolo, in Sicilia, per 1,37 miliardi. Per minimizzare l'impatto fiscale sull'incasso, la Erg si era rivolta allo studio fondato da Tremonti, con cui vanta un lungo rapporto: uno dei partner, Marcello Valenti, è sindaco della Erg Raffinerie Mediterranee.

lunedì 24 novembre 2008

Siti web da registrare, la nuova proposta di legge

da Punto Informatico
Difficile credere che si tratti di una coincidenza: a poche ore da quando Ricardo Levi ha annunciato la cancellazione delle sue criticatissime proposte per la registrazione coatta di siti web e blog, ritiro subito applaudito dagli esperti, ecco che si affaccia una nuova proposta di legge, che conferma alcuni obblighi per i siti web ma con alcuni decisivi distinguo rispetto all'orientamento Levi.
A presentarla, questa volta, non è un esponente del Partito Democratico ma Roberto Cassinelli del Partito Popolo delle Libertà e membro della commissione Giustizia della Camera. Cassinelli sia nelle dichiarazioni con cui ha ieri presentato la sua proposta sia nella introduzione alla stessa sottolinea energicamente come si tratti di un testo che vuole correggere la normativa esistente per liberare, scrive, "blog, social network e community dai lacci e lacciuoli stabiliti dalla legge per i prodotti editoriali".
In particolare Cassinelli prende di mira la legge 62 del 2001, quella che i lettori di Punto Informatico conoscono benissimo, una legge che quell'anno ha provocato una mobilitazione in rete all'epoca senza precedenti animata proprio da questo giornale: le ragioni di Cassinelli sono quelle che già all'epoca furono proposte da una petizione firmata da più di 53mila utenti Internet. In quella norma, infatti, la definizione di prodotto editoriale è così generica da comprendere qualsiasi cosa, siti e blog compresi. Da qui parte il parlamentare della maggioranza, spiegando come quella legge di fatto estenda obblighi previsti e considerati necessari per la stampa tradizionale anche a realtà elettroniche che con questa nulla hanno a che spartire. A cominciare, è lecito aggiungere, dalla caccia ai ricchi contributi pubblici per i quali quella norma era nata in primo luogo.
Secondo Cassinelli la sua proposta, dunque, limita qualsiasi obbligo ai prodotti editoriali cartacei oppure solo a quelli che definisce giornali online, "ovvero quei siti internet simili, se non identici, alla stampa tradizionale, con una redazione giornalistica regolarmente stipendiata e con la vendita di spazi pubblicitari al proprio interno". A detta del parlamentare tutto questo "risponde ad una esigenza di liberalizzare la circolazione delle idee ed il mercato delle opinioni, senza introdurre ulteriori appesantimenti e controlli", al punto che definisce la sua proposta una legge salvablog "in piena antitesi con il ddl ammazzablog presentato dall'ex sottosegretario all'editoria del governo Prodi Ricardo Franco Levi". Cassinelli ci va giù molto pesante sull'impianto Levi: "Una misura assolutamente illiberale e inaudita che metteva il bavaglio alla libera circolazione delle idee, per cui apprezziamo che lo stesso onorevole Levi abbia deciso di fare retromarcia ritirando il capitolo della sua proposta dedicato ad Internet".
Nonostante le buone intenzioni, però, c'è già in queste ore chi ha individuato nella nuova proposta alcuni rischi per una serie di siti.
La falla più pesante, in particolare, si troverebbe nella nuova definizione di prodotto editoriale "pubblicato nella rete Internet". Perché un sito venga considerato in questo modo, infatti, deve valere una qualsiasi di sette condizioni. Tra queste non c'è solo la sussistenza di una redazione giornalistica o la riproposizione su web dei contenuti di un giornale cartaceo, ma anche quanto previsto dal "punto b" dell'articolo 2 comma 1, un assai più generico "il gestore o gli autori delle pagine ne traggano profitto". Questa definizione, associata al fatto che la proposta legge si applicherebbe a pressoché qualunque sito si focalizzi su "la pubblicazione o la diffusione di notizie di attualità, cronaca, economia, costume o politica" si può tradurre, dicono gli esperti consultati da Punto Informatico in queste ore, in nuovi obblighi per qualsiasi sito il cui gestore tragga profitto di qualsiasi genere (non solo economico) dalla propria attività
Peraltro, che l'espressione "traggano profitto" del punto "b" possa non riferirsi per gli autori del sito solo all'aspetto economico ma a qualsiasi genere di profitto anche non economico, ad esempio in termini di visibilità o reputazione professionale, sembra indicarlo anche il successivo punto "f", in cui riferendosi agli autori o gestori dei siti si parla invece esplicitamente di "compensi periodici o salutari per la propria attività di gestione o redazione". Sulla stessa linea anche il successivo "g". Il problema dell'obbligo di registrazione e di dover sottostare alle altre pendenze della legge sulla stampa a cui sono sottoposti i giornali tradizionali, viene sottolineato ora, non sembra dunque affatto risolto. Anzi si confermerebbero gli obblighi della legge sull'editoria per pressoché qualunque sito pubblichi un banner, un annuncio AdSense o, più semplicemente, permetta a chi lo realizza di ottenerne un profitto di qualsiasi genere.
In effetti Cassinelli, che Punto Informatico sta tentando di raggiungere per ulteriori approfondimenti proprio in queste ore, nella presentazione della proposta dichiara che "in questo modo, il numero di siti tenuti ad essere registrati presso il Tribunale si restringe sensibilmente rispetto a quello attuale (ossia quello previsto dalla 62/2001, ndr.) che, se si ottemperasse alle vigenti normative, risulterebbe in pratica pari alla totalità dei siti web". In altre parole nella proposta Cassinelli c'è una fondamentale presa di coscienza del vulnus giuridico causato dalla controversa legge sull'editoria del 2001, c'è l'intenzione di liberare blog e siti web da obblighi che non hanno senso ma non sembra ancora esserci una corretta definizione di prodotto editoriale, con la conseguenza che si lascia aperta la porta ad una conferma degli obblighi di registrazione e degli altri obblighi previsti per la stampa anche per tutta una serie di altri siti.
Di rilevanza, per quanto generico, il comma 2 dell'articolo 2 di questa proposta che afferma, ed è questa la più importante novità rispetto tanto alla legge sull'editoria quanto alla proposta Levi:
"Sono in ogni caso esclusi dagli obblighi previsti dall'articolo 5 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, i prodotti editoriali pubblicati sulla rete internet che abbiano quale scopo unico: a) la pubblicazione o la diffusione di idee ed opinioni proprie e personali; b) la pubblicazione o la diffusione, da parte dell'autore o gestore, di informazioni relative alla propria natura ed alla propria attività di società, associazione, circolo, fondazione o partito politico; c) la pubblicizzazione, da parte dell'autore o gestore, della propria attività di istituzione, ente pubblico o persona che ricopra cariche in tale ambito; d) la pubblicazione o la diffusione, da parte dell'autore o gestore, di informazioni autobiografiche, personali o che comunque riguardino la propria attività personale, professionale, politica o pubblica; e) l'aggregazione, in forma automatica, di notizie ed informazioni contenute in altre pagine; f) la creazione di momenti di discussione e dibattito su temi specifici; g) l'aggregazione di utenti terzi in una comunità virtuale".
Quanto emerge, dunque, è un chiaro tentativo di distinguere come due insiemi separati le attività professionali di informazione da tutte le altre. Il problema, osservano però gli esperti in queste ore, è che questo confine nella realtà delle attività di moltissimi siti è sfumato e quasi impercettibile. Un esperto di cinema, è uno degli esempi che viene fatto, che utilizzasse il suo blog per aggiornare i suoi lettori, esprimendo opinioni e dando informazioni sul cinema, e condisse il tutto con dei banner AdSense, rischierebbe di doversi registrare pur essendo tutto meno che una testata giornalistica, e certo non interessato a recuperare finanziamenti pubblici ma solo a parlare di ciò che lo appassiona con altri utenti della rete.
Come detto, ad ogni modo, quella di Cassinelli è una proposta di legge e come tale potrà essere modificata in corsa eliminando le possibili ambiguità. Nelle prossime ore Punto Informatico conta di poter approfondire la questione con il suo promotore e con altri esperti della materia.

giovedì 13 novembre 2008

I Palazzi del potere hanno aumentato le spese. Dalle agende alle liquidazioni, sprechi e privilegi

Nelle bellissime agende da tavolo e agendine da tasca del Senato, appositamente disegnate per il 2009 dalla fashion house Nazareno Gabrielli, tra i 365 giorni elegantemente annotati ne manca uno. Il giorno con il promemoria: «Tagli ai costi della politica». A partire, appunto, dal costo delle agendine: 260.000 euro. Mezzo miliardo di lire. Per dei taccuini personalizzati. Più di quanto costerebbero di stipendio lordo annuo dodici poliziotti da assumere e mandare nelle aree a rischio. Il doppio, il triplo o addirittura il quadruplo di quanto riesce a stanziare mediamente per ogni ricerca sulla leucemia infantile la Città della Speranza di Padova, la struttura che opera grazie a offerte private senza il becco di un quattrino pubblico e ospita la banca dati italiana dei bambini malati di tumore.

Sentiamo già la lagna: uffa, questi attacchi alle istituzioni democratiche! Imbarazza il paragone coi finanziamenti alle fondazioni senza fini di lucro? Facciamone un altro. Stando a uno studio del professor Antonio Merlo dell'Università della Pennsylvania, che ha monitorato gli stipendi dei politici americani, quelle agendine costano da sole esattamente 28.000 euro (abbondanti) più dello stipendio annuale dei governatori del Colorado, del Tennessee, dell'Arkansas e del Maine messi insieme. È vero che quei quattro sono tra i meno pagati dei pari grado, ma per guidare la California che da sola ha il settimo Pil mondia-le, lo stesso Arnold Schwarzenegger prende (e restituisce: «Sono già ricco») 162.598 euro lordi e cioè meno di un consigliere regionale abruzzese.

Sono tutti i governatori statunitensi a ricevere relativamente poco: 88.523 euro in media l'anno. Lordi. Meno della metà, stando ai dati ufficiali pubblicati dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, degli emolumenti lordi d'un consigliere lombardo. Oppure, se volete, un quarto di quanto guadagna al mese il presidente della Provincia autonoma di Bolzano Luis Durnwalder, che porta a casa 320.496 euro lordi l'anno. Vale a dire quasi 36.000 euro più di quanto guadagna il presidente degli Stati Uniti.(...) Se è vero che non saranno le agendine o i menu da dieci euro a portare alla rovina lo Stato italiano, è altrettanto vero però che non saranno le sforbiciatine date dopo il deflagare delle polemiche a raddrizzare i bilanci d'un sistema mostruosamente costoso. Né tanto meno a salvare la cattiva coscienza del mondo politico. Certo, l'abolizione dell'insopportabile andazzo di un tempo, quando bastava denunciare la perdita o il furto di un oggetto per avere il risarcimento («Ho perso una giacca di Caraceni». «Prego onorevole, ne compri un'altra e ci porti lo scontrino»), è un'aggiustatina meritoria. Come obbligati erano la soppressione a Palazzo Madama del privilegio del barbiere gratuito e l'avvio di un nuovo tariffario (quasi) di mercato: taglio 15 euro, taglio con shampoo 18, barba 8, frizione 6... E così la cancellazione del finanziamento di 200.000 euro per i corsi di inglese che non frequentava nessuno. E tante altre cosette ancora. Un taglietto qua, una limatina là... (...) Sul resto, però, buonanotte. L'andazzo degli ultimi venti anni è stato tale che, per forza d'inerzia, i costi hanno continuato a salire. Al punto che i tre questori Romano Comincioli (Pdl), Benedetto Adragna (Pd) e Paolo Franco (Lega Nord), nell'estate 2008, hanno ammesso una resa senza condizioni scrivendo amaramente nel bilancio: «Non è stato possibile conseguire l'obiettivo di inversione dell'andamento della spesa in proposito fissato dal documento sulle linee guida».

Risultato: le spese correnti di Palazzo Madama, nel 2008, sono salite di quasi 13 milioni rispetto al 2007 per sfondare il tetto di 570 milioni e mezzo di euro. Un'enormità: un milione e 772.000 euro a senatore. Con un aumento del 2,20 per cento. Nettamente al di sopra dell'inflazione programmata dell' 1,7 per cento.

Colpa di certe spese non facilmente comprensibili per un cittadino comune: 19.080 euro in sei mesi per noleggiare piante ornamentali, 8.200 euro per «calze e collant di servizio» (in soli tre mesi), 56.000 per «camicie di servizio » (sei mesi), 16.200 euro per «fornitura vestiario di servizio per motociclisti ». Ma soprattutto dei nuovi vitalizi ai 57 membri non rieletti e dei 7.251.000 euro scuciti per pagare gli «assegni di solidarietà» ai senatori rimasti senza seggio. Come Clemente Mastella. Il cui «assegno di reinserimento nella vita sociale» (manco fosse un carcerato dimesso dalle patrie galere) scandalizzò anche Famiglia Cristiana che gli chiese di rinunciare a quei 307.328 euro e di darli in beneficenza. Sì, ciao: «La somma spetta per legge a tutti gli ex parlamentari». Fine.

Grazie alle vecchie regole, il «reinserimento nella vita sociale» di Armando Cossutta è costato 345.600 euro, quello di Alfredo Biondi 278.516, quello di Francesco D'Onofrio 240.100. Un pedaggio pagato, ovviamente, anche dalla Camera. Dove Angelo Sanza, per fare un esempio, ha trovato motivo di consolazione per l'addio a Montecitorio in un accredito bancario di 337.068 euro. Più una pensione mensile di 9.947 euro per dieci legislature. Pari a mezzo secolo di attività parlamentare. Teorici, si capisce: grazie alle continue elezioni anticipate, in realtà, di anni «onorevoli » ne aveva fatti quattordici di meno.

Un dono ricevuto anche da larga parte dei neo-pensionati che erano entrati in Parlamento prima della riforma del 1997 e come abbiamo visto si erano tirati dietro il privilegio di versare con modica spesa i contributi pensionistici anche degli anni saltati per l'interruzione della legislatura. Come il verde Alfonso Pecoraro Scanio, andato a riposo a 49 anni appena compiuti con gli 8.836 euro al mese che spettano a chi ha fatto 5 legislature pur essendo stato eletto solo nel 1992: 16 anni invece di 25. Oppure il democratico Rino Piscitello: 7.958 euro per quattro legislature nonostante non sia rimasto alla Camera 20 anni ma solo 14. Esattamente come il forzista Antonio Martusciello. Che però, con i suoi 46 anni, non solo ha messo a segno il record dei baby pensionati di questa tornata ma ha trovato subito una «paghetta» supplementare come presidente del consiglio di amministrazione della Mistral Air: la compagnia aerea delle Poste italiane.

C'è poi da stupirsi se, in un contesto così, le spese dei Palazzi hanno continuato a salire? Quirinale, Senato, Camera, Corte costituzionale, Cnel e Csm costavano tutti insieme nel 2001 un miliardo e 314 milioni di euro saliti in cinque anni a un miliardo e 774 milioni. Una somma mostruosa. Ma addirittura inferiore alla realtà, spiegò al primo rendiconto Tommaso Padoa-Schioppa: occorreva includere correttamente nel conto almeno altri duecento milioni di euro fino ad allora messi in carico ad altre amministrazioni dello Stato. Ed ecco che nel 2007 tutti gli organi istituzionali insieme avrebbero pesato sulle pubbliche casse per un miliardo e 945 milioni. Da aumentare nel 2008 fino a un miliardo e 998 milioni. A quel punto, ricorderete, nell'ottobre 2007 scoppiò un pandemonio: ma come, dopo tante promesse di tagli, il costo saliva di altri 53 milioni di euro, pari circa al bilancio annuale della monarchia britannica? Immediata retromarcia. Prima un ritocco al ribasso. Poi un altro. Fino a scendere a un miliardo e 955 milioni. «Solo» dieci milioncini in più rispetto al 2007. Col Quirinale che comunicava gongolante di aver tagliato, partendo dai corazzieri (lo specchietto comunemente usato per far luccicare gli occhi delle anime semplici), il 3 per mille. Certo, era pochino rispetto ai tagli del 61 per cento decisi dalla regina Elisabetta, però era già una (piccola) svolta...

Bene: non è andata così. Nell'assestamento di bilancio per il 2008 i numeri hanno continuato a salire e salire fino ad arrivare il 13 agosto a 2 miliardi e 55 milioni di euro. Cento milioni secchi più di quanto era stato annunciato in un tripudio di bandiere che sventolavano per festeggiare i «tagli». Risultato finale: l'aumento che avrebbe dovuto essere virtuosamente contenuto nello 0,5 per cento si è rivelato di almeno il 5,6: undici volte più alto.

(Brano tratto da «La Casta», nuova edizione aggiornata)

Sergio Rizzo, Gian Antonio Stella

lunedì 10 novembre 2008

Il peggio non è mai morto: Settecentocinquanta ettari edificabili nelle campagne. E sulla capitale si prepara a cadere una nuova ondata di cemento

La Repubblica,- 5 novembre 2008
di Alberto Statera
Tor Pagnotta, Bufalotta, Malafede, Magliana, Casal Boccone, Castellaccio, Murate. Un arcano spregiativo segna nei nomi i confini dell’ormai smisurato impero palazzinaro del terzo millennio, che dalle rarissime e dolci denominazioni come Romanina e Madonnetta non può sperare riscatto. Mentre i nuovi re di Roma, come li ha chiamati Milena Gabanelli in una famosa puntata di stanno finendo in quei luoghi di accerchiare la capitale con una distesa di cemento pari a un’area grande come dieci volte quella di Parigi, accumulando ricchezze immense, il nuovo sindaco post-fascista Gianni Alemanno perfeziona il sacco prossimo venturo della capitale, che va sotto il nome di "housing sociale" e che si aggiungerà a quello già in corso. Venticinquemila nuovi appartamenti, 9 milioni di metri cubi, da costruire per cominciare su altri 750 ettari di quel che resta dell’Agro romano, dopo che 60 mila sono già stati cementati. I proprietari privati cedono terreni agricoli su aree vincolate per fare edilizia convenzionata a destinazione residenziale e in cambio ottengono l’autorizzazione a costruire su altri terreni per vendere a prezzi di mercato. L’"agricoltura d’attesa", come si definisce l’enorme estensione terreni tenuti lì incolti in attesa dell’edificabilità, torna a premiare gli astuti, pazienti palazzinari. Chi poi di pezzi di Agro ne aveva pochi, insediato Alemanno in Campidoglio, è corso a comprare con i soldi in bocca, pregustando lo skyline dei nuovi insediamenti, così fitti di palazzine che non ci passerà nemmeno un autobus.
Diceva Francesco Saverio Nitti: «Roma è l’unica città mediorientale senza un quartiere europeo». Cent’anni dopo nessun quartiere può dirsi europeo tra i dieci chiamati burocraticamente "centralità", sui 18 previsti, che soffocano Roma con una nuova città da 70 milioni di metri cubi, praticamente una nuova Napoli incistata sulla capitale. Né l’europeizzazione è garantita dal piano regolatore, che Alemanno si appresta a sbullonare, varato dal sindaco Walter Veltroni in articulo mortis, esattamente cento anni dopo quello di Ernesto Nathan, il massone di origine inglese che rifiutò di firmare la voce di bilancio "frattaglie per gatti". Da dove il detto romanesco "nun c’è trippa pe’ gatti".
Oggi di trippa ce ne è in abbondanza per i nuovi palazzinari, pudicamente diventati immobiliaristi, che non sono più gli zotici capomastri che nei primi anni Settanta accorrevano al salvataggio della papale "Immobiliare Roma", precettati dal cardinal Marcinkus e dal vicepresidente e amministratore delegato del Banco di Roma Ferdinando Ventriglia, il banchiere democristiano che con i suoi fidi li teneva prigionieri. Oggi sono loro a possedere banche, banchieri, finanza, giornali, giornalisti, partiti politici, ministri, arcivescovi, sindaci e architetti. Sono loro a condizionare, nella crisi dell’economia globalizzata, gli equilibri periclitanti del capitalismo nazionale.
Enrico Cuccia trafficò con la cosiddetta ala nobile del capitalismo ormai estinta, il suo successore in Mediobanca Cesare Geronzi curò soprattutto l’ala ignobile di quel capitalismo cementizio che di un pezzo preponderante dell’economia nazionale si è impossessato, partendo da Malafede e da altri agri romani dalle cupe denominazioni. Fatta salva naturalmente la Madonnetta. Vedere per credere. Ma chi, pur nato a Roma, potrebbe credere in quel che vede se imbocca oggi, poniamo, via della Bufalotta? A Nord Est della capitale, tra la Salaria e la Nomentana, entri in un budello che si snoda per chilometri e chilometri tappezzato di pizzerie, discariche di pezzi di ricambio, tombini saltati, pittoreschi cartelli pubblicitari fai-da-te, solarium, benzinai, effluvi d’incerta natura e improbabili centri estetici. Ti viene da pensare in fondo che soltanto provinciali esteti come Pier Paolo Pasolini potevano amare questa Roma. E persino che andrebbe eretto un monumento equestre a quel palazzinaro milanese che oggi siede a Palazzo Chigi e tanti anni fa edificò Milano-2 e Milano-3 ottenendo, con l’aiuto di Bettino Craxi, non solo le licenze edilizie, persino lo spostamento delle rotte aeree che col rumore avrebbero potuto disturbare i futuri residenti.
Ma non è lungo il serpentone della Bufalotta o nei centri commerciali che lo circondano, alcuni dei 28 che in pochi anni sono spuntati intorno a Roma, che trovi la misura di questa città sovrapposta alla città, grande più o meno come Padova, capace di contenere 200 mila persone. Devi inoltrarti a destra e a sinistra, verso la Nomentana e verso la Salaria, dove verdeggiava il dolce Agro romano, oggi punteggiato dagli uffici-vendite delle palazzine. È lì che comincia un singolare viaggio tra letteratura, cinema e poesia con i toponimi che le giunte comunali hanno scelto, incuranti della scissione tra i nomi e il panorama circostante. Non lontano da viale Ezra Pound impera Pietro Mezzaroma, palazzinaro sostenitore del neosindaco postfascista Gianni Alemanno, caso di convergenza con le simpatie mussoliniane del poeta del toponimo. "Mezzaroma e figli" hanno costruito palazzine larghissime da otto piani appoggiate nel nulla, tra strisce d’asfalto coperte di rifiuti e campi disseccati. Come? "Secondo Mezzaroma", dice un enorme cartello pubblicitario plastificato, in spregio a via Robert Musil. Basta spostarsi un po’ ai lati del budello - sarebbe meglio dire bordello, ci corregge un signore che si è indebitato per comprare un appartamento con terrazzo sul nulla - per aggirarsi tra via Adolfo Celi, via Gian Maria Volontè e via Mario Soldati. Alle spalle di Ikea troneggiano gli immensi parallelepipedi dall’incerto colore di Francesco Gaetano Caltagirone, detto Franco o Francuccio, il re dei re di Roma, l’uomo più liquido d’Italia, come dicono le cronache finanziarie, titolare di un patrimonio di incalcolati miliardi di euro (forse 23) che dalla Bufalotta e da altre location periferiche della capitale è approdato a Siena, Rocca Salimbeni, dove è vicepresidente del Monte dei Paschi, a piazza Unità d’Italia, Trieste, con le Generali, in laguna con Il Gazzettino, a Napoli con Il Mattino, oltre che a Roma, via del Tritone, dove la figlia Azzurra, moglie di Pierferdinando Casini, presidia Il Messaggero, primo giornale della capitale. Non è il solo a dilettarsi con i giornali. Domenico Bonifaci, quello che ha appena imprigionato l’ingresso a Roma dalla via Flaminia con lo scempio degli immensi palazzoni che lambiscono la stretta striscia d’asfalto, controlla l’altro giornale di Roma, Il Tempo, mentre i fratelli Toti sono tra gli azionisti della Rizzoli-Corriere della Sera.
I palazzoni residenziali targati Caltagirone hanno sette, otto, dieci piani, poggiati tra buche, erbacce, immondizia. Chi comprerà mai l’invenduto ora che i mutui sono cari e vengono erogati dalle banche con il contagocce? Passeggia per via Cesare Zavattini, pace all’anima dell’umorista che viveva nel verde dei Castelli Romani, una giovane signora con il pupo in carrozzina. Non abbiamo il coraggio di interrogarla, ma leggiamo nei suoi occhi la disperazione esistenziale. Un appartamento di 90 metri quadri pagato (anzi da pagare con mutuo indicizzato) 320 mila euro per scarrozzare il neonato in questa landa da pionieri del Far West, una favela che prometteva lusso con le sue terrazze a mezzo melone, con parapetti a intarsio e piscine condominiali vuote, senza collegamenti. Metrò, autobus, strade, asili, scuole, servizi? Un sogno perduto. Dov’è Roma? Dove San Pietro, il Colosseo, il Quirinale? Caltagirone è in ogni dove, ovunque ci siano ettari di Agro da edificare, ma a Bufalotta, dove vende con l’"Inter Media Group" i suoi cuboni a 4 o 5 mila euro al metro, condivide la cementificazione praticamente con l’intera genia dei nuovi palazzinari. Lui è liquido, molti altri costruiscono per farsi con le banche, come si dice, la "leva finanziaria". Scavalchi via Riccardo Bacchelli, l’autore del "Mulino del Po", e t’imbatti in via Olindo Guerrini il poeta scapigliato detto "lo Stecchetti", che poetava: «Quando schizzan le sorche innamorate/ Dalle tue fogne, o Roma».
Bufalotta non è l’unico cuore della speculazione immobiliare di Roma, che ha creato una nuova classe di padroni del capitalismo italiano, è solo uno dei luoghi dove s’incrociano gli interessi di quasi tutte le famiglie palazzinare. Oltre a Franco Caltagirone, capo di una dinastia di origine siciliana di cui fanno parte il fratello Leonardo, che ha costruito il "Parco Leonardo" vicino all’autostrada per Fiumicino, e Edoardo, ci sono i Caltagirone Bellavista, sopravvissuti ai tempi di Andreotti ("a Frà, che te serve", chiedeva Gaetano al factotum andreottiano Franco Evangelisti), impegnati in varie, discusse operazioni immobiliari. E poi Bonifaci, Scarpellini, Mezzaroma, Parnasi, Todini, Erasmo Cinque, Pulcini, Navarra e Toti. Spesso si dividono le torte, ma qualche volta si scannano. Ultimo caso: i fratelli Toti vendono un terreno a Franco Caltagirone e poi dalla giunta Veltroni, che sta per concludersi, cercano di farsi autorizzare una variante per trasformare in residenziali altre aree a Bufalotta vicine a quelle che il re palazzinaro ha pagato fior di quattrini. L’operazione salta. Claudio Toti, il fratello del capoclan Pierluigi, la prende sportivamente e dice che in fondo la sua aspirazione è di andare a fare mozzarelle in Uruguay. Caltagirone, invece, non la manda giù e, eletto Gianni Alemanno sindaco, attacca il centrosinistra che ha governato per quindici anni: «Con Veltroni - sibila - Roma è andata a picco». Ma non concede appoggio preventivo al nuovo sindaco: «Ristoranti e pizzerie con Veltroni, con Alemanno torneremo alla tessera del pane». Persino Erasmo Cinque, intimo di Gianfranco Fini, ha già avvertito Gianni Alemanno: «Il rodaggio è finito» e ha preso di petto il sindaco che ha nominato all’Acea Giancarlo Cremonesi, pur suo collega palazzinaro e antico sodale di destra. L’ala sociale postfascista costringerà i palazzinari a una stagione di digiuno con l’"housing"? Difficile, più probabile che capiti il contrario visto il tono "proprietario" con il quale i potentati del mattone si rivolgono alla nuova giunta capitolina. Alemanno dice di voler riscrivere il piano regolatore veltroniano, che l’urbanista Pietro Samperi, autore di "Mezzo secolo di politica urbanistica romana - Dalle illusioni degli anni ‘60 alle disillusioni degli anni 2000", definisce il viatico per un sacco di Roma "subdolo e strisciante". E ha già provato a mettere i piedi nel piatto, bocciando il progetto di Renzo Piano per le Torri del ministero delle Finanze da abbattere all’Eur per fare 170 mila nuovi metri cubi di Toti, Ligresti, Marchini, con 400 appartamenti di superlusso davanti alla "Nuvola", il centro congressi firmato da Fuksas. Un affronto stilistico al quartiere mussoliniano - dice il sindaco - uno stravolgimento della skyline di Piacentini.
Sorridono i Caltagirone di ogni ramo, sorridono i fratelli Toti della Lamaro con i Parnasi, i Mezzaroma, i Bonifaci. Pensano già ai profitti che metterà in moto la fine dell’attesa per l’"agricoltura d’attesa", a tutto il cemento che coprirà le ultime, dolci colline dell’Agro. Gianni è un ragazzo semplice e appassionato. Ma anche lui capirà. Capirà chi comanda a Roma. E in Italia.

martedì 4 novembre 2008

Misteri della Legge La Valle d’Aosta applica autonomamente il “Decreto Brunetta”

Aosta - Il disegno di legge, i cui contenuti sono stati condivisi con i sindacati del comparto pubblico. Tra le novità in VdA: il medico fiscale non potrà effettuare la visita di controllo dalle 13 alle 16, stipendio decurtato nei primi 5 gg di malattia.

In Valle d’Aosta si dimezzano i giorni di assenza per malattia su cui saranno applicate le decurtazioni dello stipendio. Lo ha deciso la Giunta regionale che ha optato per un’applicazione autonoma, più leggera, del “Decreto Brunetta”. Non saranno dunque 10 le giornate ma 5. "Interveniamo - spiega il presidente della Regione, Augusto Rollandin - nell'ambito di competenze esclusive riconosciute dal nostro Statuto speciale, in materia di ordinamento degli uffici e di stato giuridico ed economico del personale". Il ddl, che passerà in II Commissione e poi in Consiglio regionale, non fissa l'ammontare delle riduzioni, ma prevede che esso sia definito in sede di contrattazione con i sindacati. La decisione assunta dalla Giunta è frutto della concertazione con i sindacati che si dicono soddisfatti, anche se hanno manifestato l’esigenza di approfondire la questione in Consiglio affinché il provvedimento possa interessare anche il comparto della sanità e della scuola, i cui stipendi sono pagati dalla Regione autonoma. Il disegno di legge “Disposizioni urgenti in materia di pubblico impiego regionale”, sull’applicazione del Decreto Brunetta rispetto alle assenze per malattia, tocca circa 5mila dipendenti del comparto unico regionale. Tra i punti che sono stati oggetto di confronto, figura la fascia oraria in cui il medico fiscale non può effettuare la visita di controllo: la normativa nazionale prevede un'ora, dalle 13 alle 14, il ddl regionale aggiunge due ore, portando la “libera uscita” dalle 13 alle 16. Tra le novità che riguardano l'applicazione del Decreto nella nostra Regione figurano: la visita fiscale sarà d'obbligo solo dopo 10 giorni di assenza consecutiva, per Brunetta invece dal 1° giorno. Vengono confermati nel ddl valdostano gli articoli 3 e 4, il collocamento a riposo d'ufficio per chi ha 65 anni o 40 di contributi, anche se è prevista la possibilità di restare in servizio in caso di necessità specifica o di accordo tra le parti.